Psicologia del sequestro di persona

Psicologia del sequestro di persona

La psicologia del sequestro di persona è intimamente legata alle peculiarità di questo delitto doloso consistente nel privare illecitamente qualcuno della libertà individuale per un periodo di tempo più o meno lungo. L’esperienza insegna che tra le motivazioni alla base di tale reato si trovano prevalentemente quelle a scopo di terrorismo ed eversione, quelle a scopo di estorsione ma anche quelle a scopo di sfruttamento delle qualità intrinseche nel soggetto. Il sequestro di persona rappresenta così un crimine particolarmente violento, primariamente perché pone il soggetto in una condizione di moderna “schiavitù” ma anche perché lo espone ad un elevato livello di violenza per un periodo prolungato di tempo, spesso coinvolgendo in questa violenza anche i congiunti del rapito.

Nel sequestro la fase di preparazione risulta fondamentale per la riuscita dello stesso e richiede, per essere efficace, la presenza di capacità cognitive di programmazione, controllo e pianificazione integre e ben strutturate. Il criminale o il suo gruppo dovranno infatti individuare una vittima, valutarne l’affinità ai loro scopi, calcolare i rischi del sequestro, studiare le condizioni più atte a metterlo in pratica, valutare come gestire la prigionia e molte altre attività che, per loro stessa natura, difficilmente potranno essere condotte da soggetti con disturbi mentali maggiori, organici o funzionali, in atto.

Approfondendo il punto di vista psicologico, nelle dinamiche di sequestro sono presenti diversi meccanismi assai rilevanti. Il princiaple è quello che intende spogliare la vittima di ogni qualità personale positiva, ostacolando cosi un eventuale processo di identificazione del sequestratore con la vittima, rimuovendo con esso la naturale empatia che impedisce nell’individuo non gravemente psicopatico di infliggere prolungate sofferenze gratuite ad un suo simile. In questa operazione il sequestratore si ripulisce la coscienza, superando il senso di colpa e inquadrando il sequestro come un pareggiamento di conti o come un atto dovuto.

Il sequestro ha quindi inizio con la cattura, un agito ad elevato impatto psicologico per la vittima ed in certa misura anche per il sequestratore. L’ostaggio viene privato improvvisamente ed in modo spesso violento della sua libertà, quindi delle sue abitudini e infine della sua identità. Non potendo più determinare nulla della sua esistenza viene ridotto ad un oggetto nelle mani dei sequestratori. L’effetto sorpresa necessario alla cattura costituisce allora di per sé un traumatismo, una dolorosa distruzione della sicurezza personale, un crollo nella fiducia del mondo esterno al rapito, una chiara percezione di pericolo di vita. Circa invece il sequestratore la cattura coincide con l’inizio dell’attività criminosa, con lo spartiacque nella percezione della propria identità come persona “normale” o come criminale efferato.

Segue quindi solitamente una fase di trasferimento durante la quale la vittima percepisce con sempre maggiore chiarezza l’allontanamento dal mondo della sua libertà e l’entrata in un mondo diverso, sconosciuto, ostile, atto a mantenere la sua condizione di oggetto rubato. Il trasferimento si completa con la prigionia, solitamente messa in atto in luoghi angusti e difficilmente accessibili, sotto la sorveglianza di soggetti spesso pregiudicati o addirittura latitanti, comunque capaci di essere privi di impegni sociali, familiari, lavorativi per lungo tempo.

Durante la prigionia compaiono quindi tutti i fattori che caratterizzano ancor più il sequestro come un esperienza traumatica, al limite della sopravvivenza. La deprivazione sensoriale, atta a ridurre la riconoscibilità di persone e luoghi da parte della vittima, produce nella vittima un disorientamento spazio temporale che di per sé rimanda a diverse psicopatologie. L’isolamento forzato mostra quindi progressivamente i suoi effetti che, alla lunga, producono una totale destabilizzazione del soggetto, minandone nel profondo il funzionamento psichico. Infine le violenze pure e semplici, con il loro significato di umiliazione, di induzione alla dipendenza, di spinta all’annullamento personale, di mantenimento di una condizione costantemente minacciosa. Da segnalare infine l’utilizzo della violenza sotto forma sessuale quale dinamica improntata all’affermazione del potere totalitario del sequestratore sul sequestrato, come conferma di prevaricazione, valorizzazione, umiliazione.

Un accenno a parte nelle dinamiche di sequestro va riservato agli aspetti vittimologici relativi alla relazione vittima autore e alle conseguenze in termini di danno psichico per la vittima. Circa la prima, si osserva una netta predominanza relazione di contenuti tesi alla reificazione dell’ostaggio, a cui viene riconosciuto un ruolo commerciale e non più umano, affiancati da elementi di forzata dipendenza psicologica attuata tramite un sistematico lavaggio del cervello da parte del carceriere che, creando dubbi, imprevedibilità e pericolo costante, sostanzia una condizione di vuota prostrazione utile al raggiungimento del fine criminale. Unica eccezione a tale pattern è rappresentata dalla altrimenti nota Sindrome di Stoccolma, che prende il nome da una rapina con ostaggi avvenuta in detta città nel 1973 dove i sequestrati mostrarono elevata solidarietà e identificazione con gli aggressori, verosimilmente attuate in un procedimento teso dapprima a negare le sofferenze che le 131 ore di sequestro armato procurarono loro e successivamente a giustificare il comportamento del rapitore sulla base di sofferenze precedentemente patite dallo stesso. In questi casi però si osserva anche un processo di identificazione del rapitore con la vittima che lo spinge ad attenuare la sua aggressività.